Quando ero piccola, a prescindere da cosa pensassi di voler diventare da grande quel giorno, o quella settimana, c’era sempre una condizione: andare all’estero. Sognavo di fare la Expat, ancor prima di conoscere la parola expat. Sognavo gli Champs-Elysees e rientrare dal lavoro passeggiando lungo la Senna; sognavo di guardare il tramonto oltre il Tower Bridge mentre pedalavo verso casa; sognavo la vita folle e incasinata dei newyorkesi; sognavo il caldo di Barcellona; sognavo le coste dell’Irlanda. Ricordo che la sera, ne parlavo sempre con mia madre. Ah, l’Europa! Quanto era bello? Un mondo alla portata di un’ora, massimo due di aereo.
Dopo la sua morte, le distanze non importavano più… Perché andare a un’ora di distanza, quando puoi andare a sei, o nove, o dodici o quante ne vuoi? E allora, sognavo i grattacieli di Singapore, le ville con piscina della California, il deserto poco fuori Dubai, la Ocean Road dell’Australia. Insomma, sognavo di girare il mondo, di vivere in giro per il mondo, di cambiare casa, ogni sei mesi, di girovagare, instancabilmente. Sognavo di andare a vivere in Canada prima di esserci stata, di trasferirmi in Kuwait prima ancora di sapere di preciso dove fosse. La costante era vivere all’estero, poi, dove, come, cosa non importava.
Fino a quando non ho avuto la mia prima “esperienza” da “quasi-expat”, o come li abbiamo soprannominati con alcuni amici, gli expat life trials. La prima volta all’estero, sapendo che durerà cinque mesi, non uno di più, non uno di meno. Con la consapevolezza che tutto ciò non è destinato a continuare. Per mille motivi… fare la magistrale qui, non avrebbe senso per me, quindi a che pro? Allungare l’Erasmus? Mah, forse sarebbe il caso di laurearsi… Insomma, sono cinque mesi, punto. Si tratta di partire con due valigie, farsi una vita, sentirsi a casa e sul più bello tornare.
Per qualche strana ragione, io non avevo mai sognato di andare a Lisbona… Non perché non mi piacesse, anche perché prima dello scorso novembre non ci ero mai stata, semplicemente non si era mai presentata l’occasione di metterla sulla Bucketlist. E invece, quando avevo letto il bando erasmus, Lisbona era stata l’unica destinazione che avevo scelto. Follia? Rischio? Curriculum? Onestamente non lo so, so solo che Lisbona in quel momento sembrava una scelta sensata. E per varie ragioni, Lisbona è capitata a puntino. Perché in quel momento per me era bene mettere tre ore di aereo tra quella che era la mia vita e quella che è oggi la mia vita.
Ma poi, dopo tre mesi all’estero, dopo tutte le difficoltà di imparare una lingua, di studiare il tre lingue diverse, di capire cosa vuoi fare dopo, di ricominciare da zero a livello di amicizie, di tornare a casa e avere sempre un milione di cose da fare, posso dire solo questo: la vita da Expat, non è facile. È sicuramente piena di energia, è bella, intrigante, affascinante, invidiabile a volte, ma è anche tosta. È anche piena di difficoltà, difficoltà a cui manco avevi pensato prima. Ma ripeto, io sogno di “fare la expat” da quando ero piccola, e non saranno certo le difficoltà che ciò comporta a farmi cambiare idea. Infatti, da Lisbona, ho già programmato il mio prossimo trasloco (breve però, circa sei o sette settimane)… Ma di questo, ne parlerò più avanti.
Se avete letto fin qui, grazie. Per me non è stato semplice aprirmi sulla questione, ho scritto poco in queste settimane perché ho molto da metabolizzare, e probabilmente vi racconterò davvero del portogallo solo quando sarò in un altro continente. Ma life is a journey, not a destination… Have a safe journey!
Camilla
Have a safe Journey you too, take care!
Andrea
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Thank you my dear 🙂
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Grazie a te di aver scritto. E’ vero che essere expat è tosta, e tanti di quelli che rimangono non se ne rendono conto. Questa cosa delle radici che devi far crescere, poi magari sradicarle, ripiantarle da un’altra parte… ogni volta è uno strappo. Eppure non c’è niente come stare all’estero, quel modo di sentirsi ❤
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Sono più che d’accordo. Diciamo solo che, fin da piccola, ero brava a sognare di fare la expat. A viverlo, è tutta un’altra storia. Ma non cambierei ciò per nulla al mondo. (Eccetto la burocrazia, oggi è il mio pallino della giornata perdonami)
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Io dopo la burocrazia francese, che ho trovato Il Male supremo, rimango sempre docile ovunque. Davvero, era un incubo! Spero tu abbia risolto le tue grane burocratiche cmq 🙂
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Nope. Devo tornare in Italia per risolverle.
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Azz! Solidarietà, è successo anche a me in Europa 😦
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Mi ritrovo molto in ciò che hai scritto: da sempre proiettata verso l’estero, due semestri Erasmus in paesi diversi e adesso un trasferimento in corso e, in teoria, definitivo. Dopo i miei “expat life trials”, pensavo di essere pronta per tutto ciò che trasferirsi avrebbe comportato, e invece, sin dal primo momento in cui ho realizzato che non ci sarebbe stato un biglietto di ritorno, mi sono resa conto di essere già in un campo minato di emozioni sconosciute.
Grazie per aver condiviso i tuoi pensieri. È bello sapere di non essere soli.
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Ciao! Mi spiace di non essere riuscita a risponderti prima, ma sono stati giorni pieni e volevo dedicare il giusto tempo alla risposta… Mi fa molto piacere sapere che ti sei ritrovata nelle mie parole… Vivere all’estero è bello, emozionante, imprevedibile ma anche dura… Se ti va sentiamoci via mail (trovi la mia nel contact), mi piacerebbe chiederti di raccontare la tua esperienza su HSJ! A presto
Camilla
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